Giovanni
Battista Piranesi (1720-1778) è un architetto veneto che, giunto a Roma intorno alla metà del Settecento con il non
facile obiettivo di entrare nel giro delle grandi commesse ecclesiastiche, si
fa un nome - e una considerevole fortuna - in qualità di incisore di vedute sulle
rovine dell’antichità.
La
conoscenza di innovative soluzioni prospettiche - messe in atto nella coeva scenografia
teatrale dove, abbandonata la centralità del punto di fuga, l’adozione di
numerosi assi obliqui permetteva di ottenere effetti di spettacolare
dilatazione degli spazi - consente al giovane Piranesi di elaborare un nuovo
modo di posare lo sguardo sul paesaggio dell’urbe; le sue raccolte, spesso
accompagnate da eruditi commenti, ottengono un grande successo sin dal primo
apparire sul mercato antiquario.
Nel
vasto repertorio dell’artista non ci sono solo studi “archeologici” – ideologicamente
connessi alla dimostrazione della superiorità strutturale e ornamentale delle
architetture romana ed etrusca su quella greca – ma anche una serie di disegni
di fantasia, le Carceri d’invenzione,
luoghi immensi ma claustrofobici e oppressivi, abitati da figurine spettrali che
si muovono tra mura possenti, scalinate labirintiche e ponti sospesi nel vuoto.
Nelle
sale di Palazzo Mosca, le splendide acqueforti di Piranesi sono esposte accanto
alle opere della collezione permanente dei Musei Civici. Sicuramente rivedere
la Pala di Bellini è un’emozione piacevole, ma la soluzione adottata dal
curatore non è delle migliori: infatti, a causa della carenza di spazio sulle pareti libere, le stampe sono state appese in più ordini, una sopra l’altra,
fin quasi al soffitto. Di conseguenza, la visione delle opere collocate in
altezza risulta praticamente impossibile e questo è ancora più grave in quanto
il disegno di Piranesi, per essere fruito in maniera soddisfacente, richiede una lettura meticolosa, tanto degli
oggetti e dei luoghi che vi appaiono, quanto delle annotazioni critiche
dell’artista.
Il
percorso termina in una grandissima aula vuota dove è in funzione uno schermo
gigante sul quale scorrono le immagini delle Carceri in versione realtà aumentata, un espediente digitale molto
efficace e coinvolgente in grado di rendere palpabile il senso di vertigine solo
parzialmente intuito nella visione bidimensionale dei fogli.
Per
ovviare ai problemi cui facevo riferimento poc’anzi, l’intera mostra poteva forse
trovare posto sulle pareti di questo stanzone; in ogni caso, semplici vetrine
oblique, eventualmente collocate al centro delle stanze del museo, avrebbero sicuramente permesso una più soddisfacente fruizione delle opere.
Mentre
osservavo le vedute settecentesche, ho anche pensato a come sarebbe stato
interessante farle dialogare con alcune riproduzioni della modernità non
soltanto per capire, attraverso il confronto,
cosa è cambiato negli ultimi duecento anni, ma anche per entrare in
empatia con l’artista, afflitto per la tragica
e ineluttabile perdita dei “resti” dell’antica Roma.
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